un ethnographic novel di Francesca Cogni e Andrea Staid
Fumetto? Graphic journalism? Pop art? Ricerca sociale?
Gli autori, acutamente, propongono il neologismo dai contorni indefiniti etnographic novel e parlano di “ricerca etnografica partecipativa”, ma proprio la sua indefinibilità è la cifra caratterizzante di questo libro (sì, almeno questo possiamo affermarlo con certezza: si tratta di un libro). Un libro che sfugge ai generi attraversandoli tutti e riesce nell’impresa di dare una forma al caos di un mondo in transizione dove l’unico tratto unificante è la contaminazione, l’ibridazione (parole che gli autori rivendicano con forza) di linguaggi, progettualità, lotte, desideri.
I confini negati nel titolo sono certamente i confini degli stati, che i protagonisti attraversano, più volte e in più direzioni nullificandoli di fatto, ma la ricerca partecipativa condotta da Cogni e Staid rifiuta le definizioni-ghetto di “migranti” o “profughi” e ci restituisce delle persone a tutto tondo: non schiacciate nell’eterno ruolo bidimensionale di vittime, ma soggetti che portano con sé le loro progettualità e aspirazioni interagendo con le situazioni che incrociano lungo la strada, mutandole e a loro volta venendone mutati.
I percorsi tortuosi dei 10 protagonisti, che si intrecciano attraverso vari continenti, disegnano una ragnatela di relazioni che rimane invisibile per chi sceglie di imbozzolarsi nel proprio privilegio dal passaporto rosso, ma estremamente reale e alternativa al mondo dei confini e delle militarizzazioni. Una ragnatela di luoghi, molto spesso informali, dove il fulcro è l’incontro, l’auto-organizzazione di lotte, la produzione di pensiero indipendente e di cultura. Luoghi dove, da Milano a Berlino, da S.Francisco a Ventimiglia, dall’Uganda ai punti più caldi di frontiera, si crea accoglienza e scambio, si pratica la possibilità di ridivenire soggetti riappropriandosi della propria vita. Si delinea in trasparenza una sorta di dimensione parallela dove l’utopia anarchica dell’autogestione trionfa, anche se sempre in modo temporaneo e precario.
Ma il libro nega anche i confini tra i generi e i linguaggi, utilizzando tutti gli strumenti e i codici che la carta stampata riesce a supportare: disegno, colore, testo, fotografia, poesia, mettendoli in connessione per arrivare a creare un linguaggio ibrido e direi “situazionale”, che si adatta e si costruisce, letteralmente, insieme alle vicende narrate. Ma la negazione del confine giunge a mettere in discussione l’ultimo e più basilare pilastro dell’opera letteraria, elevando al ruolo di co-autori, attraverso la pratica partecipativa, i personaggi stessi, che da narrati si fanno narratori.
Lo stile grafico rapido e diretto dello schizzo a pennarello restituisce perfettamente il senso di precarietà delle “vite in transito” (cit. dalla postfazione degli autori), rimanda al non finito, alla continua evoluzione, è profondamente situazionista, e non lascia trapelare il lungo lavoro di relazione, di ricerca, di dialogo, di compartecipazione, ascolto, lotta comune e empatia che ha avuto luogo nei quattro anni che la lavorazione dell’opera ha richiesto. Ma la freschezza dello schizzo riesce a portare con sé con leggerezza una profondità e un peso immensi quando ad esempio ci sciorina con l’innocenza di un gioco dell’oca la vita a ostacoli di un migrante, giocata alla roulette del destino, o affianca sulla stessa pagina il bombardamento di un villaggio in Siria e un caffè di Berlino dove un rifugiato siriano-palestinese ne sta parlando.
Le nuvolette di dialogo si intercalano a didascalie scritte a mano e a tratti il pennarello lascia spazio a inserti fotografici, comunicati di collettivi, stralci di giornali, versi poetici in varie lingue o testi giornalistici dei personaggi narrati/narranti, componendo un effetto che, dal punto di vista artistico, rimanda un po’ all’universo hip pop di un Basquiat e riesce a incorporare nella forma stessa la grande complessità e gli “immaginari in costruzione” (cit.), che sono quelli dei protagonisti, ma anche i nostri.
E’ evidente che un tale risultato non si improvvisa, ma è frutto di un lavoro durato anni di processi relazionali e di “racconti sulle possibilità politiche di emancipazione”, di cui il disegno e la composizione della pagina possono essere volta a volta la restituzione o un vero e proprio strumento di riflessione collettiva.
Ne risulta un oggetto ibrido che non è fumetto, non è arte, non è documentario, non è attivismo sociale e non è ricerca, ma è tutte queste cose insieme. Un tentativo, che gli autori definiscono di antropologia condivisa, di raccontare un mondo in movimento dal punto di vista di chi è tagliato fuori dalla narrazione ufficiale.
E, se il medium è il messaggio, è logico che anche il linguaggio usato debba percorrere sentieri non ancora dissodati. Gli autori coralmente indicano una strada, e sembra davvero molto feconda!
Francesca Cogni, disegnatrice e narratrice, e Andrea Staid, antropologo, “Senza Confini, una etnographic novel”, Milieu Edizioni.
Articolo di Antonella Selva
Fotografie di Elena Tinti e Lucia Imbriaco