Come nel cinema e forse di più, nel fumetto le rare opere di autori non occidentali (così per capirci: nel mondo globalizzato suona sempre più insensato attribuire etichette!) che riescono a farsi largo nei nostri mercati hanno la forza dirompente di un fulmine nella notte, che mostra per un istante paesaggi sconosciuti.
E’ il caso di Freedom hospital, originale romanzo grafico dell’esule siriano trentaduenne Hamid Sulaiman, che ha lasciato la Siria da neolaureato in architettura nel 2011 ed è finito a raccontare la Siria a fumetti prima a Parigi e poi a Berlino.
Il libro, pubblicato in italiano dalla editrice Add di Torino nel 2018 con prefazione di Cecilia Strada, è una fiction ambientata in Siria nel 2012, dove 11 personaggi tra ricoverati, medici e loro supporter, che rispecchiano le variegate componenti socio-culturali del paese, si trovano a convivere in un ospedale clandestino allestito da una giovane attivista democratica in una cittadina inizialmente in mano alle truppe lealiste e poi conquistata dall’Isis. La situazione innaturale del variopinto microcosmo costretto all’interno dell’ospedale permette all’autore di studiare i suoi personaggi come in vitro e li forza trovare soluzioni non violente agli inevitabili conflitti politico-culturali, poiché da ricoverati semplicemente non possono spararsi addosso. Il finale non fornisce soluzioni più di quanto non faccia la dura realtà, ma, pur nel precipitare della situazione, mantiene aperta una speranza.
Lo stile, con un aspro bianco e nero alla Frank Miller (certo non così patinato – ehi, qui siamo in Siria, sotto le bombe!) è efficace nell’esprimere la precarietà della situazione (il fantaospedale viene bombardato e ricostruito un paio di volte), la sensazione di essere continuamente braccati e pure l’urgenza di opporre in qualsiasi modo una resistenza, anche attingendo al volontarismo e alla forza dell’improvvisazione, insomma ci comunica l’evidente bisogno dell’autore di continuare a giocare un ruolo nella Storia attraverso la realizzazione di questa storia a fumetti.
La continua, puntigliosa sottolineatura della provenienza delle armi utilizzate (russa, americana, francese, l’intermediazione saudita…) e il contatore delle vittime, in continuo aggiornamento a scandire i passaggi da una scena all’altra, suggeriscono che se i siriani fossero stati lasciati tra loro a dirimere le loro controversie forse l’esito, come all’interno del Freedom hospital, avrebbe potuto essere diverso.
Un libro necessario per poter udire la voce di chi vive – e troppo spesso muore – in Siria, senza avere accesso ai media, occidentali o islamisti.
Dalla Siria andiamo nientemeno che in Cina, con Li Kunwu e Philippe Otié, coppia di autori decisamente fuori dagli schemi che ha dato vita, con un lavoro di anni, alla monumentale opera Una vita cinese, oltre 700 tavole suddivise nei tre volumi: 1) Il tempo del padre, 2) Il tempo del partito e 3) Il tempo del denaro (tutti publicati in Italia, tra il 2016 e il 2017, di nuovo da Add Editore, Torino).
Il materiale che lievita nell’impasto a 4 mani è molto più che un’autobiografia a fumetti, almeno per due significativi fattori che interagiscono nell’opera:
innanzitutto la testimonianza di un cinese, partecipe e allo stesso tempo osservatore acuto del suo mondo, sui 60 anni di storia che comprendono il grande balzo in avanti, la rivoluzione culturale, la morte di Mao, la brutale apertura al mercato e la successiva travolgente industrializzazione, anche se si tratta di una persona comune quale il protagonista si percepisce, non è una storia qualsiasi, ma è davvero una finestra sulla Storia con la S maiuscola!
L’altro elemento è la singolare alchimia prodotta dalla collaborazione tra due autori così diversi.
Li Kunwu (nato nel 1955 nello Yunnan), protagonista del graphic novel insieme alla sua famiglia, raro caso di fumettista al servizio della stampa cinese (la specifica “di regime” è pleonastica) e artista straordinario capace di passare dalla precisione documentaristica al registro impressionistico alla deformazione espressionista con la massima naturalezza, non si limita a disegnare magistralmente le tavole, ma fornisce tutto il prezioso materiale narrativo attraverso le sue memorie;
Philippe Otié ha lavorato in Cina per 10 anni come consigliere commerciale all’ambasciata di Francia e conosce bene il mandarino. E’ lui che, dopo aver conosciuto il fumettista cinese, concepisce il soggetto del libro e coinvolge l’amico nell’impresa, stimolandolo a raccontare e dedicandosi alla sceneggiatura dei suoi racconti autobiografici. Probabilmente è proprio la mediazione narrativa del francese che riesce così efficacemente a trasmettere il vissuto cinese al pubblico occidentale: ogni passaggio è ben spiegato e contestualizzato e anche gli aspetti più estranei e bizzarri per noi risultano logici e comprensibili nell’economia del racconto, i personaggi sono scolpiti a tutto tondo e perfettamente inseriti nello sfondo storico, il ritmo è incalzante e ben modulato sugli eventi… insomma, un romanzo storico che non ha nulla da invidiare ai più elevati modelli letterari.
E’ forse superfluo rilevare che entrambe queste opere hanno visto la luce in Francia. La Francia non solo si conferma la patria europea del fumetto, ma dimostra anche di dare il meglio di sè quando si mantiene fedele alla sua vocazione, un tempo importante, di accoglienza degli esuli.
Articolo di Antonella Selva
quest’articolo è stato pubblicato il 10 agosto scorso sul blog La bottega del barbieri
Foto dal sito AddEditore