Per proseguire sul tema della letteratura araba contemporanea, vogliamo occuparci oggi di Una piccola morte, inconsueto romanzo di un inconsueto autore: si tratta della biografia romanzata di un grande mistico musulmano vissuto tra il XII e il XIII secolo, Muhy-ed-din Ibn Arabi al Andalusi, nato a Murcia, Andalusia, e vissuto quasi sempre in viaggio per tutte le terre dell’islam, scritta da un autore saudita emergente, Mohamed Hassan Alwan, che con questo libro ha conquistato nel 2017l’international prize for arabic fiction.
Da notare innanzitutto l’effetto curioso di uno stile letterario estremamente piano e quotidiano, a raccontare un mondo tanto distante da noi come il medio evo dell’altra sponda del Mediterraneo e il mistcismo sufi. Curioso anche che, tra le censure politiche e di costume e la grettezza politica e culturale dell’Arabia Saudita, riesca a fiorire una grande letteratura – e forse la scelta di un personaggio un po’ eretico come tutti i mistici, ma prudentemente lontano nel tempo, è significativa.
Scelta comunque estremamente interessante perché il maestro Ibn Arabi, o almeno quello dipinto da Alwan, è un uomo che, per quanto dedito alla ricerca di Dio, non è affatto estraneo alle cose del mondo, anzi! Si intrattiene in conversazioni filosofiche con Averroè (di cui poi accompagnerà la salma nell’ultimo viaggio), è consigliere di numerosi sultani e califfi, tra Siviglia, Marrakech, Baghdad e Konya in Anatolia con i quali mostra un talento diplomatico non comune, è coinvolto nelle dispute religiose del suo tempo e fronteggia con la sicurezza di chi possiede l’ispirazione divina aspre contestazioni che oggi definiremmo di stampo integralista al Cairo e a Damasco, attraversa i deserti con le carovane mercantili e riesce a conciliare una vita di ascesi, predicazione e eremitaggio con ben 3 matrimoni e un grande amore romantico. Insomma, il medio evo di Alwan non appare affatto buio, ma al contrario riluce di mille colori, benché solcato anche dalle ombre della guerra, tra dinastie rivali, i crociati franchi* che premono da un lato e la minaccia mongola incombente dall’altro.
La ricerca della saggezza e dell’illuminazione lo rende costantemente inquieto e non appena di una città ha conosciuto tutte le moschee, frequentato tutte le librerie discusso con tutti gli sheik (saggi), sente che è arrivato il momento di abbandonare gli agi e la notorietà acquisita per ricercare nuova sapienza altrove, non di rado presso mistiche donne, che a quanto pare non erano cosa rara in quel tempo. E sa che in qualsiasi città troverà confraternite sufi pronte ad accogliere lui e suoi seguaci più fedeli e moschee e librerie dove discepoli entusiasti accorreranno alle sue lezioni. Di tappa in tappa si spoglia sempre più degli orpelli mondani, si cura sempre meno del favore dei potenti e si avvicina sempre più “alla luce”.
Con l’avanzare dell’età il personaggio si dedica sempre meno alla politca e sempre di più alla scrittura e la sua poesia, libera ed elevata al di sopra di qualsiasi censura, a volte lo inguaia, ma lui rimane serenamente fedele alla ricerca della verità e nel corso di un eremitaggio da inizio alla stesura delle sue memorie. Il prezioso manoscritto autobiografico è esso stesso l’oggetto di una affascinante sottotrama in cui Alwan ci racconta come attraversi i secoli miracolosamente indenne e arrivi ai nostri giorni superando guerre, invasioni e saccheggi grazie alla reverente protezione di devoti, mistici e studiosi.
La produzione libraria medievale emerge quindi come indiscussa coprotagonista del racconto, creando evocative consonanze con altri libri che trasportano il lettore in quel mondo lontano nel tempo: penso a Il mio nome è rosso, del premio nobel turco Orhan Pamuk e ovviamente a Il nome della rosa di Umberto Eco. Non so se la sottotrama di Alwan sia pura fiction o sia storia, l’autore non lo chiarisce, ma il rispetto reverenziale riservato a un libro redatto a mano da un uomo che ha animato i più importanti centri di produzione libraria della sua epoca non può non richiamare alla mente l’affascinante mondo dei miniatori, che Pamuk coglie al suo crepuscolo, nella corte di Istambul di fine 500, e dei copisti che Eco mette al centro del suo monumentale labirinto di riferimenti letterari.
*tutti gli europei venivano definiti franchi a quell’epoca nei paesi islamici
Articolo di Antonella Selva