Letteratura araba contemporanea vuol dire anche letteratura disegnata: molti considerano che essa nasca con il graphic novel Metro, edito in Italia da Il Sirente nel 2010, di Magdy El Shafee (Libia, 1961), considerato colui che nel mondo arabo ha sdoganato il fumetto come genere pienamente maturo, rivolto anche al pubblico adulto. E’ un’opera prima uscita nel 2008 in Egitto e immediatamente censurata e condannata alla distruzione di tutte le copie in circolazione, ufficialmente a causa di una scena di letto (in verità castigatissima, per i nostri standard) ma soprattutto “perché alcuni personaggi possono rassomigliare a politici realmente esistenti” (chissà perché, il verbale di denuncia non ne rivela i nomi).
Dell’opera prima ha qualche perdonabile momento un po’ aggrovigliato nella trama, ma sopratutto una freschezza e una forza assolutamente dirompente nell’esprimere in modo diretto e un segno icastico ed espressionista l’insofferenza dei giovani, giunta ormai quasi al punto di rottura (tre anni dopo scoppierà la primavera araba) per una situazione politica e sociale marcescente e corrotta. La scelta del genere noir e di schierarsi senza pentimenti dalla parte opposta a quella della legge – poiché la legge è solo un velo ipocrita di cui si ammanta il sistema di potere – permette all’autore di sfuggire alla retorica della letteratura di denuncia. Niente prediche o sermoni, ma una vera e propria hard boiled novel nel posto “sbagliato”: un Cairo che non ci mostra piramidi, minareti e esotismi vari ma dove una ragnatela di strade trafficate, linee telefoniche e internet e naturalmente i tunnel della metropolitana viene percorsa febbrilmente dal giovane protagonista come un leone in gabbia, consapevole del proprio talento informatico, ma anche di quanto poco esso valga in una situazione dove solo la corruzione è moneta corrente. Sarà proprio lui, cinicamente lucido nel radiografare un sistema di potere tanto corrotto quanto pervasivo, e privo di illusioni sulle possibilità di ribaltarlo, a scegliere nonostante tutto di rimanere al proprio posto a combattere con orgoglio una battaglia che sa essere persa e a sostenere la sua ragazza che invece conserva ancora qualche illusione. Il 2011 si percepisce già nell’aria.
Stesse atmosfere da giungla d’asfalto nel film Omicidio al Cairo (titolo originale più azzeccato “The Nile Hilton incident” a richiamare un fatto di cronaca nera realmente accaduto nel 2008) che Rai4 ha proposto il 12 febbraio. Stesso contesto di decadenza all’ultimo stadio, dunque, ma questa volta autore e attore protagonista svedesi oriundi egiziani, Tarek Saleh e Fares Fares, e soprattutto opera concepita e prodotta dopo la rivolta del 2011 con cui si conclude la storia. Piacevolmente straniante nel trasporre anche qui gli schemi della hard boiled novel in Egitto e dipingere in un Cairo slabbrato che più non si può le atmosfere che siamo abituati ad associare a posti come Los Angeles.
Nel Cairo di Tarek Saleh, però, non c’è alcuna via d’uscita: anche il detective è un ingranaggio del sistema, anche lui corrotto e acquiescente (e nient’affatto sveglio come i suoi omologhi alla Chandler, se solo alla fine capisce l’intera tresca!), e non basta la sua quotidianità miserabile o un debolissimo tentativo almeno di capire per assolverlo, l’unica certezza è l’inamovibilità del sistema di potere e la deprimente consapevolezza di farne parte, anche se ai piani bassi. Quando il diritto e lo stato inteso come cosa pubblica non esistono l’unica legge è quella della giungla, l’unica difesa è la protezione del più forte, i deboli, come i profughi sudanesi che affollano i quartieri degradati, soccomberanno, che ci vuoi fare… Lo scoppio della rivolta chiude il film, ma non c’è catarsi, perché nel 2017 (anno di produzione) sappiamo già com’è andata a finire, Giulio Regeni ce lo ha insegnato.
Solo un appunto: spesso lo sguardo che gli oriundi riservano al paese d’origine sembra più duro dello sguardo di chi è interno alla situazione narrata, Tarek Salleh è più drastico di Magdy El Shafee nella sua condanna, non concede spazio non dico alla speranza, ma neanche alla resistenza, che pure esiste. Forse chi è esterno fatica a cogliere interamente le dinamiche in gioco, prigioniero nonostante tutto di uno sguardo orientalista, o forse si fa prendere la mano dall’urgenza della denuncia, ma a che serve la denuncia se non c’è nulla da salvare? Se più nessuna brace arde sotto la cenere? El Shafee mantiene, pur nella sua lucida amarezza, un punto fermo su cui costruire un’alternativa: la sua dignità e consapevolezza del proprio valore. Quei e quelle giovani hanno mostrato che un’altra realtà esiste e non basterà la repressione a cancellarlo. Saleh, guardando l’Egitto dalla Svezia, non vi vede nessuna luce. Perfino nell’Albania che colava a picco in Lamerica di Gianni Amelio, si trovava almeno un funzionario capace di riconoscere e scegliere la dignità, possibile che invece non ce ne sia neanche uno in tutto il Cairo, che da solo conta 4 o 5 volte gli abitanti dell’Albania?
Articolo di Antonella Selva