Di fronte all’arrivo di nuove persone, e più in generale di fronte alla diversità, un atteggiamento molto diffuso e purtroppo molto legittimato come “normale” (parola quanto mai ambigua e anche pericolosa!!) è di disagio e e timore per la paventata “non integrabilità” di determinate diversità culturali. Se guardiamo alla storia italiana – ma in fondo di tutti i territori – vediamo però che nel tempo ogni sorta di culture si sono “integrate”, amalgamate, ibridate, producendo sempre qualcosa di nuovo, insomma producendo la storia di ogni popolazione. Cioè, questa faccenda dei differenti gradi di “integrabilità” del diverso sembra in gran parte un artificio retorico che sottintende qualcosa di meno politicamente corretto, ossia la pretesa di cavarsela senza mai dover cambiare una virgola della propria visione, scaricando sui portatori dell’alterità tutta la fatica del cambiamento.
Così facendo, però, rinunciamo proprio al dono più prezioso che il confronto con la diversità – qualsiasi diversità – ci porta: la possibilità di assumere un nuovo punto di vista, lo stimolo a cambiare, ad allargare i nostri orizzonti, la scoperta che esistono altri modi per raccontare la realtà. Proprio qui sta l’importanza strategica della letteratura omoglotta, ossia la produzione leteraria nella nostra lingua di autori non nativi italiani, ne abbiamo già parlato in questo blog a proposito dello scrittore algerino Amara Lakhous.
E’ in gran parte grazie al prezioso apporto della letteratura di questo tipo che il punto di vista degli “altri” sul colonialismo italiano sta riuscendo ad aprirsi un varco nella edulcorata immagine oleografica di italiani brava gente che nonostante tutto permane ancora inossidabile: nonostante la “moglie”-schiava.-bambina di Montanelli (da lui definita bonariamente “animalino docile”), nonostante gli studi postcoloniali ormai anche da noi non siano più un ufo.
Il potere della narrazione infatti è enorme, è ciò che attribuisce evidenza pubblica a fatti e situazioni che, se non fossero narrati, sarebbero relegati nell’oblìio del non-esistente.
Questo è ciò che fanno i narratori e le narratrici che utilizzano l’italiano per raccontarci – proprio a noi, sì! – la nostra storia di là dal mare. E’ un servizio inestimabile: ci restituiscono il nostro passato, permettendoci di farci i conti, di diventare adulti, di assumere le nostre responsabilità, quella storia sequestrata da una narrazione incredibilmente ancora permeata della visione fascista, che ci vuole invece eternamente minori, inconsapevoli, brava gente amorale e irresponsabile che può così crogiolarsi nell’eterno ruolo di vittima della storia.
Una delle pagine più nere e più dimenticate della storia d’Italia è l’avventura coloniale nel corno d’Africa e solo una produzione letteraria ormai matura che lì ha le sue radici ha la forza l’autorità per ricordarcela.
Una delle autrici più interessanti in questo senso è sicuramente Shirin Ramzanali Fazel, che della mixità ha fatto la sua cifra, dato che è nata a Mogadiscio (Somalia) nel 1953 (cioè sotto l’Amministrazione Fiduciaria Italiana in Somalia – AFIS – sorta di protettorato italiano che doveva in teoria accompagnare il paese verso l’autonomia dopo il periodo coloniale) da padre pakistano e madre somala, ha frequentato le scuole italiane a Mogadiscio e ha sposato poi un ragazzo discendente da padre italiano che come la maggior parte dei “meticci” somali, le migliaia di figli di unioni tra uomini italiani, militari, funzionari o imprenditori, ma sempre dominatori, e donne somale, aveva subito durante l’infanzia l’internamento in un istituto religioso italiano.
Nel 1971, a causa della dittatura di Siad Barre, durante la quale l’ascendenza italiana è un fardello ancora più imbarazzante, la coppia cerca rifugio in Italia, a Novara, dove, a quei tempi, viene loro fatto sentire pesantemente di essere le uniche persone di pelle scura sul territorio. Dunque l’eterna maledizione della non appartenenza li spinge ancora lontano, in una vita nomade tra Zambia, Stati uniti, Arabia Saudita, Kenya e Regno Unito, benché l’Italia divenga piano piano la sua casa per Shirin, qui nascono le sue figlie, crescono e studiano. Nel 1994 esce il primo romanzo della scrittrice, Lontano da Mogadiscio, che avrebbe dovuto riportare la presentazione di Ilaria Alpi, amica della scrittrice e purtroppo uccisa barbaramente nel corso di una coraggiosa inchiesta sul traffico di armi in Somalia. Dopo diversi racconti e raccolte poetiche, Ramzanali Fazel approda al suo secondo romanzo, Nuvole sull’equatore, storia di una bambina meticcia nata negli anni 50, il cui padre italiano, imprenditore sotto l’AFIS, l’abbandona poco dopo la nascita insieme alla madre per tornare in Italia. La vita della piccola ci racconta qual è stata la storia di questi italodiscendenti in Somalia, dimenticati dai padri e dal paese dei padri, spesso affidati dolorosamente dalle madri alle missioni italiane (tanto da essere chiamati comunemente “figli della missione”) perché disconosciuti anche dalla comunità materna. La piccola Giulia verrà di nuovo accolta dalla mamma dopo alcuni anni di internamento, quando quest’ultima riuscirà a recuperare la rispettabilità attraverso un secondo matrimonio e altri figli e avrà intrapreso un percorso di emancipazione. Affascinante e delicato romanzo di formazione che ci racconta l’evoluzione di un paese che tenta faticosamente di liberarsi dell’eredità coloniale tra lotte e speranze infrante, attraverso la vita di Giulia, figlia italiana per la Somalia, figlia invisibile per l’Italia, dove infine lei approderà per studiare.
L’autrice non si è fermata e negli anni recenti ha seguito la figlia trasferita a Birmingham, UK, per motivi di studio, dove ora anima il vivace collettivo letterario Writers without borders, benché affermi di sentirsi a casa in Italia anche se il Regno Unito offre molte più opportunità. Sono molto interessanti le sue considerazioni sull’autotraduzione e il “nomadismo linguistico” che si possono leggere in questa recente intervista, indicative di quanto l’appartenenza multipla apra gli orizzonti!
Articolo di Antonella Selva
Incredibile come chi parla di passato da conoscere dimentichi completamente la questione degli Italiani in Libia e parli solo di “colonialismo nel Corno d’Africa” … comunque è vero che ci sono nazionalità più integrabili di altre, lo vediamo in Italia così come lo vediamo in altri paesi europei