Ritorno su Pascal Manoukian, autore francese che mi piace molto sia per la profonda conoscenza delle situazioni che racconta sia per la sua magistrale capacità di trascendere il reportage pur rimanendo aderente alla realtà per costruire personaggi indimenticabili e trame avvincenti e senza la minima sbavatura.
Vorrei parlare stavolta del suo primo romanzo, apparso in Francia nel 2015 e pubblicato in Italia dalla editrice 66th and 2nd nel 2016: “Derive” (titolo originale: “Les échoués”).
Virgil, il gigante buono arrivato dalla Moldavia implosa insieme all’URSS, Assan il padre che con il coraggio della disperazione riesce a portare l’unica figlia che gli è rimasta via dalla Somalia in preda alla guerra civile, Chanchal, spedito giovanissimo in Europa dalla famiglia rimasta in un villaggio ormai quasi sommerso dal mare in Bangla Desh, si trovano a incrociare i loro destini a Villeneuve-le roi, anonimo sobborgo di Parigi nei pressi dell’aeroporto di Orly. Siamo nel 1992, dopo che gli accordi di Schengen hanno stabilito che chiunque arrivi in Europa è un clandestino.
Ad accompagnarli si intuisce l’occhio del reporter che dal 1975 al 1995 ha coperto tutti i principali conflitti – Libano, Guatemala, Jugoslavia, Irak, e naturalmente Afghanistan, dove fu tra i pochissimi giornalisti internazionali ad osservare l’invasione sovietica nel 1979.
Manoukian, dunque, non parla per sentito dire: la fine di Mogadiscio, lo sgretolarsi dell’Europa dell’est dopo la caduta del muro di Berlino li ha osservati e raccontati nei panni del cronista e fotografo e probabilmente Virgil, Assan e Chanchal sono la sintesi di tante persone in carne ed ossa conosciute dall’autore, da loro prendono il potente senso di verità che riescono a trasmettere, a loro restituiscono la memoria e la dignità che la società francese, come quella italiana, non vuole concedere.
Proprio la società francese, di una grigia quanto opulenta banlieue, è l’altro protagonista del romanzo: cosa sanno i cittadini di Villeneuve-le-roi (cosa sappiamo noi) dei rifugi di fortuna condivisi dai Virgil di turno con gli animali selvatici nel folto di un bosco di periferia (che potrebbe essere anche ai Prati di Caprara)? Chi sa in quale fatiscente squat “rincasa” il giovane venditore di rose asiatico che abbiamo incrociato distrattamente al ristorante in una sera di pioggia? Chi si preoccupa di cosa succede ai piani più alti di un edificio in costruzione, quelli troppo alti perché ci arrivi un ispettore, o perfino un sindacalista? Manoukian lo sa. Sa tutte queste cose, i sacrifici, lo sfruttamento, la disperazione ma anche l’incrollabile fiducia che, al riparo degli sguardi dei cittadini garantiti, tengono in piedi l’economia della città. E proprio perché tutte queste cose non sono “errori del sistema”, ma sono il sistema, non basta la buona volontà di una famiglia accogliente incontrata dai protagonisti per cambiare il corso degli eventi.
Lo sguardo di Manoukian è più penetrante forse anche perché lui stesso ha memorie familiari dello stesso tipo: nato in Francia nel 1955 da una famiglia armena che era sfuggita al genocidio in Turchia nel 1915-16 la sua conoscenza del mondo mediorientale è sicuramente più “interna” di quella di qualsiasi studioso occidentale. E quanto l’esperienza dei profughi entri in risonanza con le sue memorie, l’autore stesso ce lo dice attraverso i ricordi di un personaggio del suo secondo romanzo: “Ciò che stringi nella tua mano destra ti appartiene”, inquietante affresco sui foreign fighters dell’Isis. Qui erano i racconti della nonna armena di Charlotte, compagna del protagonista e vittima di un attentato a Parigi, a guidare l’avanzata di Karim nei territori siriani controllati dal Califfato.
In entrambi i romanzi, forse, si nota un troppo facile ricorso al suicidio per risolvere situazioni narrative altrimenti imbarazzanti, ma se dicessi di più farei dello spoiler!
Recensione di Antonella Selva
Foto tratte dai siti delle case editrici italiana e francese