Notiamo soddisfatti che le mamme straniere hanno finalmente conquistato l’attenzione dei servizi educativi. Cioè quelli preposti all’educazione dei bambini. I bambini di origine straniera sono, è cosa nota, una spina nel fianco del sistema educativo italiano: a cominciare dal fatto che quando arrivano parlano un’altra lingua, per continuare con le condizioni socioeconomiche di solito sfavorevoli e per finire con un tasso di abbandono e insuccesso scolastico più elevato degli autoctoni. Se ci pensiamo, è come dire che essere uno studente italiano riesce meglio ai ragazzi italiani.
Anni di interventi di sostegno concentrati sui ragazzini non sembrano aver intaccato veramente questo gap e ciò potrebbe essere la ragione profonda dell’interesse che negli ultimi tempi riscuotono le loro mamme. Quest’ultimo è senz’altro una buona cosa, se però non diventa un alibi per la scuola per rimandare ancora una sempre più urgente riflessione su se stessa.
Proprio delle mamme, infatti, si occupa l’attuale PAL bolognese, ossia il Piano di Azione Locale contro le discriminazioni del comune di Bologna, con una serie di azioni coordinate dal CDlei e Centro RiESCO che coinvolgono l’ampia rete di volontariato alla base delle scuole di italiano per migranti.
L’idea è stata di lanciare un’offerta di corsi di L2 rivolti specificamente alle madri straniere, e in particolare a quelle che trovano più difficile l’interazione con la società ospitante in quanto donne casalinghe la cui vita si svolge prevalentemente in ambito domestico.
Bè, che dire, è una grande soddisfazione constatare che la nostra intuizione era vincente: non ci verrà mai riconosciuto, eppure noi, nel nostro piccolo, da tre anni stiamo lavorando sull’idea che le madri sono una delle chiavi più importanti per il successo dei figli e mettere a disposizione strumenti perché anche le più fragili fra di loro possano aumentare la loro autonomia e rendersi più protagoniste della loro vita significa lavorare non solo per queste donne ma per il futuro di tutta la società.
Ma quello che ci interessa è che le idee buone circolino e diventino senso comune e in questo caso sembra sia quello che sta accadendo. L’offerta del PAL, ancorché basata prevalentemente su risorse volontarie, ce la mette tutta per essere efficace, lo sforzo di venire incontro alle madri casalinghe è tangibile: i corsi “l’italiano della cura” sono diffusi sul territorio cittadino, vanno a cercare le utenti nei quartieri, promossi dalle scuole e dai servizi per l’infanzia, inoltre gli orari sono scelti con attenzione per intercettare le mamme nei momenti in cui i bambini sono a scuola, ma soprattutto le sollecitano sul loro nervo più scoperto, il bisogno di capire e farsi capire dagli insegnanti dei loro figli e dagli operatori sanitari. L’italiano della cura, appunto. E’ un aspetto molto importante, la prima cosa che il primo gruppo di mamme del “marsupio” ci chiese, quando cominciammo il nostro percorso 3 anni fa, fu esattamente di poter interloquire “con le maestre e con il dottore dei loro figli”.
Una madre di famiglia potrà anche non avere tra i suoi obiettivi l’emancipazione e la crescita personale, potrà a volte aderire all’etica del sacrificio di sé per il bene dei figli e della famiglia, ma anche la più tradizionalista non avrà dubbi sul fatto che un certo grado di autonomia è necessario proprio per svolgere il ruolo familiare che le è affidato.
L’intervento dunque è partito con il piede giusto ed ha ottenuto un primo risultato importante: un centinaio di donne in città hanno frequentato il primo modulo che si è svolto tra ottobre e dicembre. Ma il progetto ha puntato anche sulla qualità, proponendo agli insegnanti volontari un percorso seminariale molto innovativo e interessante in quanto centrato sulla metodologia didattica per persone con scolarità debole o analfabete e sulla gestione di classi multilivello, che sappiamo bene essere i due punti più critici per chi affronta l’insegnamento della L2 agli adulti. La docente Fernanda Minuz, esperta di linguistica e glottodidattica, ha cercato di far uscire gli insegnanti dalla routine e dalle abitudini consolidate richiamando la loro attenzione sul rischio di infantilizzare gli allievi adulti, e sull’importanza al contrario di riconoscere e fare leva sul bagaglio di competenze e di saperi di cui essi sono portatori, sulle loro esigenze (le madri appunto avranno probabilmente motivazioni e bisogni diversi dai giovani lavoratori singoli) e anche sulla affascinante sfida che ci viene posta dalle persone analfabete. I processi cognitivi di chi, come in Italia/Europa è lo standard, è esposto da bambino alla scrittura si differenziano per molti aspetti da quelli di invece è immerso in una dimensione orale, a partire dal fatto che gli alfabetizzati, in particolare gli insegnanti, tendono a sovrapporre lingua e scrittura, mentre sono due cose distinte, e il linguaggio, le lingue, sono nate e si sono sviluppate per millenni in assenza di scrittura. Le persone analfabete fanno affidamento a risorse mentali, di memoria, di intuizione, di orecchio ecc, che gli alfabetizzati tendono a mettere in secondo piano, potendo contare sulla comodità della scrittura come “dispositivo esterno di memoria”, ed essendo più facilitati nel pensiero astratto.
Questo non deve significare rinunciare all’alfabetizzazione, la cui mancanza nella nostra società è un pesante handicap, ma darle il giusto peso, accontentandosi magari del livello necessario, quello che risponde ai bisogni concreti della persona, senza per forza puntare al livello ritenuto ottimale a scapito semmai della fluidità nello scambio orale.
Insomma si è aperto in città un percorso importante, a cui siamo molto fieri di aver fatto da apripista, che dedica la giusta attenzione alle persone e tenta di stimolare anche una salutare messa in discussione da parte degli insegnanti. Se poi le istituzioni volessero anche investirci un po’ di risorse sarebbe ancora meglio, perché se da un lato si opera per una società inclusiva e cooperativa, dall’altro l’idea ormai scontata che questo tipo di servizi debba farli il terzo settore gratuitamente apre non piccole contraddizioni, a cominciare dal valore evidentemente secondario che gli si attribuisce per arrivare alle prospettive che stanno di fronte ai giovani che si formano per fare gli insegnanti e gli educatori: studiano tutti per diventare volontari?
Articolo di Antonella Selva
Bravissimi!